Legale
(giovedì, 21/03/2013)
VALORE PROBATORIO DELLA CONTABILITA' IN NERO
La Corte di Cassazione, con la sentenza 20 febbraio 2013, n. 4126 ha affermato che la documentazione extracontabile, che può ben essere costituita da
appunti scritti a mano dall’imprenditore, per il suo valore probatorio, legittima di per se stessa, e a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro
elemento, il ricorso all’accertamento induttivo di cui all’articolo 39 del D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 600.
Ogni appunto o documento extracontabile con tale sentenza assume un valore “di mero indizio”, da supportare con altri accertamenti, quali il controllo della contabilità
.
La Sezione Tributaria della Cassazione ha accolto il ricorso del Fisco sulla scorta del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale:
® in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la contabilità in nero, che ben può essere costituita da appunti personali dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 39 del D.P.R., n. 600 del 1973, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dall’articolo 2709 e seguenti del codice civile tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta.
Di conseguenza detta contabilità, per il suo valore probatorio, legittima di per sé, e a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso
all’accertamento induttivo, incombendo al contribuente:
® l’onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l’atto impositivo notificatogli (da ultimo, Cass. n. 24051 del 2011).
Analogamente in tema di IVA, qualora, a seguito di ispezione, venga rinvenuta presso la sede dell’impresa documentazione non obbligatoria astrattamente idonea a evidenziare l’esistenza di operazioni non contabilizzate tale documentazione:
® pur in assenza di irregolarità contabili, è legittimamente utilizzata dall’Ufficio ai fini dell’accertamento ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972;
® non può essere ritenuta di per sé probatoriamente irrilevante dal giudice tributario – anziché avente valore di prova, sia pure presuntiva –, senza che a tale conclusione conducano l’analisi dell’intrinseco valore delle indicazioni dalla stessa promananti e la comparazione delle stesse con gli ulteriori dati acquisiti e con quelli emergenti dalla contabilità ufficiale del contribuente (tra le tante, Cass. n. 19329 del 2006, 3388 del 2010).
Ne consegue che in tema di accertamento dell'IVA, i documenti informatici (cosiddetti ‘files’), estrapolati legittimamente dai computers nella disponibilità dell'imprenditore, nei quali sia contenuta contabilità non ufficiale, costituiscono, in quanto scritture dell'impresa stessa, elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, utilmente valutabile, salva la verifica della loro attendibilità. Ne deriva che essi non possono essere ritenuti dal giudice, di per sé, probatoriamente irrilevanti circa l'esistenza di operazioni non contabilizzate, senza che a tale conclusione conducano l’analisi dell’intrinseco valore delle indicazioni da essi promananti e la comparazione delle stesse con gli ulteriori dati acquisiti e con quelli emergenti dalla contabilità ufficiale del contribuente”. Il contribuente deve quindi opporre valide ragioni che destituiscano di fondamento la presunta veridicità della documentazione occultata, sconfessandone il valore o, meglio, allegando ulteriori e diversi elementi, anche presuntivi.
Con la sentenza 4904/2013 la Corte ha anche ritenuto legittima l’estensione delle indagini finanziarie ai conti intestati o cointestati al figlio del soggetto
accertato. Ciò in quanto la presunzione legale dell’articolo 32 D.P.R. n. 600 del 1973, per non consentire una facile l’elusione, opera anche sui conti
intestati ai familiari. Pertanto, l’accertamento bancario può fondarsi sulle risultanze, non giustificate, di conti correnti cointestati con altri soggetti
estranei all’accertamento, ma legati al contribuente dal rapporto familiare (in questo senso, Cass. 1999 n. 1728, Cass. 2002 n. 8683, Cass. 2003 n. 13391,
Cass. 2007 n. 2085, Cass. 2007 n. 6743).
Responsabilità solidale dei soci di srl solo dal 1°
gennaio 2004
L’amministratore «convenuto» non è legittimato ad agire contro il socio
nell’interesse della società
/ Maurizio MEOLI
La Corte d’Appello di Milano, nella sentenza del 18 gennaio 2012 n. 145, ha fornito interessanti chiarimenti in ordine all’art. 2476, comma 7 c.c., ai sensi del quale sono solidalmente responsabili con gli amministratori di srl i soci che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi.
Nel caso di specie, una srl conveniva in giudizio il precedente amministratore unico per ottenere il risarcimento dei danni dallo stesso provocati attraverso una serie di atti di mala gestio.
L’amministratore, costituitosi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda e, in via subordinata, per l’ipotesi di accoglimento anche solo parziale della domanda, chiamava in giudizio un socio della srl, ipotizzando la sua responsabilità ai sensi dell’art. 2476, comma 7 c.c., “in quanto soggetto a conoscenza e partecipe di ogni scelta gestionale e amministrativa della società”. Il socio in questione, costituitosi a sua volta in giudizio, eccepiva, da un lato, l’inapplicabilità della norma, perché intervenuta solo successivamente ai fatti di causa e, dall’altro, di non aver avuto all’epoca dei fatti un ruolo attivo diretto nella gestione della società.
I giudici di primo grado (cfr. Trib. Milano 24 giugno 2008 n. 8180) accoglievano la domanda della società attrice, rigettando tutte le richieste del convenuto, che presentava appello.
La Corte d’Appello respinge l’impugnazione. In particolare, i giudici di secondo grado – confermando la correttezza della decisione assunta dal Tribunale – sottolineano, in primo luogo, come la fattispecie di cui all’art. 2476, comma 7 c.c. sia in vigore dal 1° gennaio 2004 e non possa applicarsi a fatti, quali erano quelli di causa, accaduti in precedenza (nel medesimo senso si sono espressi anche Trib. Milano 9 ottobre 2008 e, più di recente, Trib. Roma 20 febbraio 2012).
Viene evidenziato, inoltre, come i titolari del diritto ad ottenere il risarcimento del danno nei confronti dei soci che si siano resi responsabili delle attività di cui sopra debbano ravvisarsi nella
società, nei soci e nei terzi danneggiati, mentre la legittimazione ad agire non possa essere riconosciuta all’amministratore. La responsabilità del socio, infatti, come desumibile dalla lettera della norma (“sono altresì responsabili con gli amministratori, ai sensi dei precedenti commi”) opera nell’ambito dell’azione sociale (ex art. 2476, comma 3 c.c. ) o individuale (ex art. 2476, comma 6 c.c. ) di responsabilità degli amministratori.
Dato l’ambito di operatività della norma, è da escludersi che in capo all’amministratore – convenuto perché ritenuto responsabile dei danni verso la società derivanti dall’inosservanza dei doveri ad esso imposti dalla legge e dall’atto costitutivo – possa essere riconosciuta la legittimazione ad agire per ottenere, nell’interesse della società, la condanna in solido del socio, posto che l’articolo in esame regola la situazione in cui concorrono due soggetti a cagionare il danno: l’amministratore, che compie l’atto; il socio, che si ingerisce mediante decisione o autorizzazione nell’attività gestoria dell’amministratore. La condanna in via solidale di tutti i responsabili può essere richiesta solo dal creditore. L’amministratore convenuto, peraltro, può, quale condebitore in solido, chiedere l’accertamento del vincolo di solidarietà con conseguente riconoscimento del diritto di regresso pro quota.
Diversi i presupposti dell’amministrazione di fatto
Dinanzi al Tribunale, inoltre, l’amministratore convenuto, nella memoria di replica, aveva provato a fondare la responsabilità del socio di srl non più sull’art. 2476, comma 7 c.c., ma sul fatto che lo stesso “ebbe a svolgere di fatto attività di amministrazione”. Il Tribunale dichiarava la domanda “nuova” non ammissibile.
La Corte d’Appello condivide tale soluzione, in quanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’amministratore – secondo il quale ci si trovava di fronte esclusivamente ad una diversa qualificazione del medesimo ruolo e presupposto in forza del quale era stato chiamato in giudizio il terzo – si doveva ravvisare un fatto del tutto nuovo e mai dedotto prima.
Infatti, la corresponsabilità del socio ex art. 2476, comma 7 c.c. e la figura dell’amministratore di fatto coprono due ambiti diversi, dal momento che per il ricorrere della figura dell’amministratore di fatto occorre che il soggetto interessato si sia ingerito sistematicamente e non occasionalmente nella gestione sociale. Sicché, essendo diversi i presupposti di fatto che caratterizzano le due fattispecie, non è possibile ritenere indistintamente evocabile detta responsabilità laddove non siano tempestivamente presentati “conferenti allegazioni e elementi in fatto atti a configurarne i diversi estremi fondanti”.
Obbligo di sottoscrizione accordo di integrazione
Dal 10 marzo tutti i nuovi immigrati che entreranno in Italia (dai 16 ai 65 anni con PDS di durata non inferiore a un anno), dovranno firmare un accordo in cui si impegnano a raggiungere determinati obiettivi, come la conoscenza base della lingua italiana. Dopo due anni, lo Sportello Unico verificherà se hanno ottenuto il diritto di rimanere in Italia.
Previsto dal cd “pacchetto sulla sicurezza” legge 94/09, sul quale la Fondazione Studi è intervenuta con la circolare n. 8/09, il regolamento sull'accordo di integrazione tra lo straniero e lo Stato istituisce il cosiddetto “permesso a punti”, un sistema legato al comportamento degli immigrati in base a parametri scelti dal governo.
L’accordo dovrà essere firmato presso lo Sportello unico per l’immigrazione dai cittadini stranieri che hanno almeno 16 anni e non è retroattivo. Scatterà infatti solo per quelli che entreranno in Italia dopo l’entrata in vigore del regolamento e chiederanno un permesso di soggiorno della durata di almeno un anno. Firmandolo lo straniero si impegna a conseguire entro due anni una conoscenza di base dell’italiano e una conoscenza “sufficiente” dei “principi fondamentali della Costituzione”, delle ”istituzioni pubbliche” e “della vita civile in Italia” (sanità, scuola, servizi sociali, lavoro e obblighi fiscali). Si impegna poi a far frequentare ai figli la scuola dell’obbligo e si dichiara di aderire alla “Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione" del Ministero dell’Interno.
La vicenda processuale
La vicenda riguarda un imprenditore indagato per il reato di omesso versamento dell’Iva di cui all’articolo 10-ter del Dlgs 74/2000, al quale erano stati prima sequestrati e poi confiscati libretti di risparmio, titoli, azioni, fondi, beni mobili e immobili, anche cointestati con la società di cui era responsabile, per un importo pari all’imposta non versata all’erario.
In prima istanza, il giudice aveva rigettato la richiesta di sequestro preventivo, ma la successiva impugnazione è stata accolta dal tribunale del riesame che ha disposto l’adozione della misura cautelare, motivando che il profitto del reato era rappresentato dall’ammontare dell’Iva evasa, per cui, non potendosi procedere al sequestro in forma specifica, occorreva procedere al sequestro di beni di valore corrispondente all’imposta che erano nella sua disponibilità, compresi quelli della società di cui era rappresentante legale.
L’ordinanza è stata impugnata in Cassazione. Il ricorrente denuncia violazione degli articoli 321 del codice di procedura civile e 240 del codice penale, sia per mancanza del presupposto per procedere al sequestro finalizzato alla confisca “diretta” sia per inosservanza del principio in base al quale il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente non può essere mai superiore al profitto derivato dal reato.
Confisca per equivalente
In merito occorre premettere che la confisca per equivalente può essere definita come un provvedimento ablativo su somme di denaro, beni o altre utilità di cui il condannato abbia la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo, al prodotto e al profitto del reato.
L’articolo 1, comma 143, della legge 244/2007, ha previsto l’applicazione dell’articolo 322-ter del codice penale, anche ai reati di cui al Dlgs 74/2000, ad eccezione della fattispecie di cui all’articolo 10 (occultamento/distruzione delle scritture contabili).
In base all’articolo 322-ter, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, “è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo”.
Il giudice potrà, quindi, disporre la confisca “per equivalente” sui beni mobili e immobili ricadenti nella sfera patrimoniale dell’imputato e, in generale, su tutti quei beni che non appartengano a terzi estranei al reato (Cassazione, sentenze 448/2012, 39239/2011 e 662/2011).
La decisione
La Cassazione ha respinto il ricorso del contribuente, nella considerazione che l’ordinanza impugnata è scevra da qualsivoglia vizio procedimentale o motivazionale.
In tal modo, nel confermare la misura sui beni dell’imprenditore intestati e cointestati, ad avviso della Cassazione, nei casi in cui il profitto consiste nel denaro (come nell’evasione dell’Iva), appare difficile sostenere di subordinare l’operatività del sequestro alla verifica che il profitto del reato sia confluito effettivamente nella disponibilità dell’indagato (Cassazione 32797/2002) proprio per la ragione che, trattandosi di sequestro per equivalente, tale necessità deve ritenersi superata. In altri termini, nel caso dell’articolo 322-ter del codice penale, la confisca per equivalente non presuppone la dimostrazione del nesso pertinenziale tra reato e somme confiscate (o sequestrate) e, inoltre, viene meno la necessità di verificare, preliminarmente, se il bene sia entrato o meno nel patrimonio dell’indagato per tentarne il recupero. Sono, infatti, assoggettabili alla confisca beni nella disponibilità dell’indagato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato.
Il tribunale ha pienamente rispettato il principio della non eccedenza della misura rispetto al profitto del reato, essendosi imposto la valutazione relativa all’equivalenza tra il valore dei beni e l’entità del profitto, come in sede di confisca (Cassazione, sentenze 2101/2009, 2110/2009, 41731/2010 e 1893/2012). Tale valutazione, infatti, che può essere effettuata sulla base di criteri presuntivi che tengano conto degli elementi emersi dalle indagini, suscettibili di ulteriore analisi in sede di merito, non si sottrae al sindacato di legittimità per contraddittorietà o manifesta illogicità: profili che non ricorrono nel caso di specie.
Occorre rammentare infine che la Corte costituzionale, con sentenza 21/2012, ha stabilito che non vìola la Costituzione la norma che prevede la confisca dei beni, in caso di morte “del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere disposta”, anche nei riguardi dei successori “a titolo universale o particolare, entro il termine di cinque anni dal decesso”.